31 Luglio 2021
Il “Fiore” fantastico di Licini
“La pittura è l’arte dei colori e dei segni. I segni esprimono la forza, la volontà, l’idea. I colori la magia. Abbiamo detti segni e non sogni” (1).
Così affermò Osvaldo Licini nel 1937.
Pochi anni dopo, rivolgendosi all’amico Franco Ciliberti, scrisse: un giorno “potrò mostrarti le mie prede: i segni rari che non hanno nome; alfabeti e scritture enigmatiche; rappresentazioni totemiche, che solo tu con la tua scienza potrai decifrare” (2).
Leggendo queste affermazioni ho potuto trarre alcune conclusioni: per Licini i segni esprimono anche l’idea; quelli “rari che non hanno nome” (3) vanno decifrati; per la loro decifrazione occorre la “scienza” di Ciliberti.
Contrariamente a quanto si è talvolta detto, i segni di Licini non hanno una funzione esclusivamente estetica; spesso, infatti, alludono a significati da scoprire.
Non avrebbe avuto senso, altrimenti, quel richiamo alla decifrazione e a una particolare “scienza” per effettuarla.
Ciliberti e la sua “scienza”
Franco Ciliberti (1905-1946) era un filosofo; si era laureato a Roma, nel 1929, con una tesi in Storia delle religioni dal titolo “Panteismo e pessimismo nello sviluppo delle religioni eurasiatiche” (correlatore della tesi fu Raffaele Pettazzoni) (4).
Aveva una “scienza”, una cultura molto vasta che spaziava, tra l’altro, dalla teologia alla filosofia, dall’arte all’architettura, dalla letteratura alla musica (5); fu molto attento al confronto tra il pensiero occidentale e quello orientale; fu teosofo (6) o comunque si interessò alla teosofia.
Leggendo il testo delle conferenze che Ciliberti tenne a Como tra il 1941 e il 1942 (7), si comprende quanto fossero fondamentali, per lui, le tematiche della spiritualità e della religiosità.
Come si ricava indirettamente da una lettera scrittagli dall’amico architetto Cesare Cattaneo, Ciliberti si considerava cristiano nel senso non “ufficiale” del termine: un cristianesimo che, pertanto, poteva rivelarsi anche “disobbediente” all’autorità della Chiesa e, in questo senso, “eretico” (8).
Tale “disobbedienza” si può cogliere, ad esempio, nell’esaltazione del pensiero di Gioacchino da Fiore che, per Ciliberti, era stato “l’unico grande profeta che l’Europa” avesse avuto, il “massimo genio del cristianesimo” (9): la Chiesa ufficiale, invece, lo ha per lungo tempo considerato un “eretico”.
Credo che il cristianesimo non “ufficiale” fosse una componente molto importante della “scienza” di Ciliberti; e, forse, è proprio il pensiero di Gioacchino da Fiore che può aiutarci a decifrare certi “segni rari” di Licini.
Gioacchino da Fiore
Gioacchino (1130-1202) fu un abate e teologo calabrese; egli considerava “la Trinità non come tre persone, ma come tre fasi di Dio al mondo. La fase più antica è quella data dal Padre. L’età del Padre è l’età dell’Antico Testamento, in cui Dio, vedendo che gli uomini sono traviati dalle passioni che derivano dal peccato originale, si mostra come giudice ferreo, tremendo, e si mostra staccato dal mondo, al di sopra del mondo” (10).
All’età del Padre, caratterizzata dal timore, aveva fatto seguito quella del Figlio, iniziata con la venuta di Cristo.
La terza età, quella dello Spirito, sarebbe arrivata in futuro: in questa fase, disse Ciliberti parlando del pensiero di Gioacchino, “sarà l’amore che regnerà sovrano fra tutte le creature e tutti gli uomini celebreranno già qui, in terra, il paradiso. Tutti tenderanno alla povertà, all’umiltà, all’amore infinito… non vi sarà più bisogno di riti o di letture, o di prediche, perché Dio stesso parlerà nella singolarità delle anime” (11).
Un cambiamento che avrebbe coinvolto anche la Chiesa che, secondo Gioacchino, era ormai divenuta troppo poco spirituale.
L’aquila e i gigli
Sul Corriere della Sera del 30 gennaio 1937 apparve la notizia del ritrovamento a Reggio Emilia, da parte di monsignor Leone Tondelli, di un’opera di Gioacchino da Fiore della quale, per secoli, si erano perse le tracce: si trattava del Libro delle Figure, un codice miniato nel quale Gioacchino aveva esposto il proprio pensiero teologico attraverso le immagini.
Dante Alighieri, secondo l’abate Tondelli, aveva probabilmente visto le figure del codice di Gioacchino e ne aveva tratto ispirazione per alcune immagini descritte nella Divina Commedia.
Nel XVIII Canto del Paradiso, ad esempio, le anime dei beati si dispongono nel cielo di Giove in modo da raffigurare le lettere che formano la frase “Diligite iustitiam qui iudicatis terram”; subito dopo le anime che formano la lettera emme della parola “terram” si dispongono in modo da raffigurare nel cielo un giglio e, infine, un’aquila.
Ebbene, questa descrizione appare ispirata proprio da una tavola presente nel Libro delle Figure, la numero VI (12).
Tavola VI del Libro delle Figure di Gioacchino da Fiore
(nell’originale l’aquila è capovolta)
Nella tavola di Gioacchino l’immagine di un albero diventa un tutt’uno con quella di un’aquila; le ali dell’uccello ricordano la forma di una lettera M e dall’albero nascono dei fiori di giglio.
La testa dell’aquila è raffigurata di profilo, sono ben evidenti il becco e l’occhio.
I gigli simboleggiano l’età dello Spirito: cioè l’età che, secondo la concezione trinitaria di Gioacchino, sarebbe un giorno finalmente arrivata.
Il drago
La tavola XIV del Libro delle figure rappresenta invece il “Drago grande e rosso”; si tratta di una rappresentazione del drago dalle sette teste descritto nell’Apocalisse di Giovanni.
Tavola XIV del Libro delle Figure di Gioacchino da Fiore
L’olandese volante
Nel 1940 fu pubblicato Il libro delle Figure che, pochi anni prima, era stato ritrovato a Reggio Emilia (13).
Già prima di questa pubblicazione, tuttavia, quelle figure avevano iniziato a circolare (14).
Credo che anche Licini le avesse viste prima della pubblicazione del 1940.
Sappiamo che l’artista si era definito “eretico” (15): anche lui, come Ciliberti, si considerava cristiano nel senso non “ufficiale” del termine; l’interesse di Licini per il cristianesimo di Gioacchino da Fiore sarebbe stato coerente con questa non “ufficialità”.
Licini, d’altra parte, aveva manifestato interesse per la spiritualità sin dagli anni Dieci, già molto tempo prima di conoscere Ciliberti (16).
Nella prima metà degli anni Quaranta l’artista inventò un personaggio che poi avrebbe disegnato e dipinto numerose volte.
Si tratta dell’Olandese volante, una figura nella quale compaiono segni misteriosi.
Osvaldo Licini, Olandese volante azzurra, 1944
La mia ipotesi è che questi segni fossero stati ispirati a Licini da alcune immagini del Libro delle Figure di Gioacchino da Fiore.
L’elemento curvilineo (simile a una falce lunare), infatti, ricorda la forma del drago dalle sette teste della Tavola XIV di quel libro; l’Olandese volante di Licini potrebbe quindi contenere un’allusione al drago dell’Apocalisse di Giovanni così come raffigurato da Gioacchino.
Un tema, quello del drago apocalittico, che l’artista aveva comunque affrontato già nella prima metà degli anni Trenta; nel dipinto intitolato Il drago del 1932 (o 1933) apparivano sette triangoli di colore nero, probabilmente un riferimento, anche in questo caso, alle sette teste del drago dell’Apocalisse di Giovanni (17).
Osvaldo Licini, Il drago, 1932 (o 1933)
Non era ancora presente, invece, l’elemento curvilineo che Licini avrebbe successivamente inserito nell’Olandese volante e che, probabilmente, gli venne ispirato proprio da un’immagine del Libro delle Figure di Gioacchino.
Nel personaggio dell’Olandese volante di Licini sono solitamente presenti tre segni che sono disposti uno sopra l’altro e che ricordano la forma di altrettante lettere dell’alfabeto (spesso si tratta delle lettere a, M ed A): questi segni, secondo me, sono una sintetica rappresentazione dell’albero – aquila della Tavola VI di Gioacchino (18).
Partendo dall’alto, il primo dei tre segni ricorda, infatti, l’occhio/becco dell’aquila vista di profilo; il secondo (la M) fa pensare alla forma delle ali (19), il terzo alle diramazioni dell’albero dalle quali nascono i fiori di giglio.
L’albero-aquila, d’altra parte, assomiglia a un totem; e Licini, non a caso, aveva parlato anche di “rappresentazioni totemiche” nella citata lettera a Ciliberti del 1941 (20).
Con la tavola che rappresenta l’albero-aquila Gioacchino alludeva al futuro avvento dell’età dello Spirito, l’età dei “gigli” nella quale il materialismo sarebbe stato vinto dalla spiritualità.
Con estrema semplificazione si può dire che il drago dell’Apocalisse, per Rudolf Steiner (teosofo e fondatore dell’antroposofia), fosse la manifestazione del pensiero materialistico, un pensiero che, a partire dal positivismo ottocentesco, era divenuto sempre più dominante; invece l’arcangelo Michele, che nell’Apocalisse sconfigge il drago, avrebbe rappresentato, per Steiner, la spiritualità.
“Ecco una significativa immaginazione: Michele che vince il drago. D’ora in avanti la missione di Michele è di far fluire nel mondo sensibile sostanza spirituale. Noi siamo al suo servizio. Noi dobbiamo vincere il drago, il drago che cerca di affermarsi diffondendo le idee che, nell’epoca di Gabriele ormai trascorsa, produssero il materialismo, le idee del tempo passato che aspirano a diventare predominanti nel futuro” (21).
Licini, nel 1937, affermò: “siamo astrattisti per la legge psicologica di compensazione, cioè per reazione all’eccessivo naturalismo e materialismo del secolo decimonono… L’arte si trasforma e si rinnova seguendo rigorosamente gli sviluppi irresistibili dello spirito, che non torna indietro” (22).
Nelle opere sul tema dell’Olandese volante l’artista inserisce elementi che, traendo probabilmente ispirazione da Gioacchino, alludono al materialismo (il drago) e al tempo stesso alla spiritualità (la “rappresentazione totemica”): attraverso queste opere Licini manifesta la sua esigenza di reagire all’eccessivo materialismo.
Quella stessa esigenza che alcuni anni prima lo aveva fatto diventare un astrattista “seguendo rigorosamente gli sviluppi irresistibili dello spirito”.
L’opera intitolata Portafortuna – Merda (pur non essendo riconducibile al tema dell’Olandese volante ma probabilmente coeva all’invenzione di questo) (23), può essere interpretata in senso analogo.
Osvaldo Licini, Portafortuna – Merda, prima metà degli anni Quaranta
Qui la “rappresentazione totemica” è unita da un segno (in corrispondenza della lettera M) alla parola “merda”. Quest’ultima, essendo un evidente esempio della materia meno nobile, può essere vista come un’allusione al materialismo (un equivalente del drago); l’unione con la “rappresentazione totemica” allude, secondo me, all’attesa sublimazione di quella stessa materia (una sorta di sua trasformazione “alchemica”) (24).
I “duo viri” e il Fiore fantastico
Credo che Licini avesse avuto un profondo interesse per il pensiero di Gioacchino da Fiore; un interesse mai dichiarato ma lasciato intuire attraverso i “segni rari che non hanno nome”.
L’attenzione dell’artista per Gioacchino si può ravvisare, secondo me, anche in opere con soggetti diversi dall’Olandese volante; mi riferisco, ad esempio, ai temi delle Croci viventi e dell’Angelo di San Domingo.
Nelle Croci viventi è talvolta raffigurata una croce che ricorda la forma del tau, un simbolo di San Francesco; il titolo Angelo di San Domingo, invece, appare come un riferimento, seppur non esplicito, a San Domenico di Guzmán.
Osvaldo Licini, Croci viventi, 1953
Osvaldo Licini, Angelo di San Domingo su fondo giallo, 1956 (particolare)
Ebbene, sulla base di una profezia da alcuni attribuita a Gioacchino da Fiore, due uomini (“duo viri”) sarebbero venuti per sostenere la Chiesa in un difficile momento di smarrimento dovuto anche a un eccessivo materialismo: i “duo viri” sarebbero stati proprio San Francesco e San Domenico.
La scelta di Licini di raffigurare, in alcune opere, la croce che ricorda la forma del tau oppure l’angelo di San Domingo (rispettivamente un richiamo a San Francesco e a San Domenico) potrebbe essere anche un riferimento a quella profezia di Gioacchino da Fiore.
Osvaldo Licini, Fiore fantastico, 1956
Osservo, per concludere, che alcune opere di Licini hanno il titolo di Fiore fantastico: forse un omaggio a Gioacchino.
Lorenzo Licini
* Questo studio, pubblicato per la prima volta sul sito internet osvaldolicini.it, deve molto al confronto di idee che, sull’argomento, ho avuto con mia madre Silvia; a lei va il mio ringraziamento.
(1) Osvaldo Licini, Natura di un discorso, Corriere Padano, Ferrara, 9 ottobre 1937.
(2) Lettera di Osvaldo Licini a Franco Ciliberti del primo febbraio 1941.
(3) Un primo esempio di questi suoi “segni rari che non hanno nome” si può probabilmente trovare nell’opera intitolata Il milionario del 1938.
(4) Elena Di Raddo, Alle origini di una nuova era Primordialismo e arte astratta in Italia negli anni Trenta, Mimesis Edizioni, Milano, 2020, nota 22 a pag. 36.
(5) Elena Di Raddo in Alle origini di una nuova era Primordialismo e arte astratta in Italia negli anni Trenta, op.cit., pagg. 12-13 scrive che “Ciliberti è stato innanzitutto un filosofo, appassionato di religioni orientali, e un erudito i cui interessi spaziavano dalla filosofia, alla religione, all’arte. Di estrema importanza è stata quindi l’analisi degli anni della formazione a Roma, dove Ciliberti frequentava gli studiosi di orientalismo e di storia delle religioni Giuseppe Tucci, Ernesto Buonaiuti, Raffaele Pettazzoni e leggeva le opere del poeta Rabindranath Tagore e dello storico Károly Kerényi”.
(6) Sull’appellativo di “teosofo” talvolta dato a Ciliberti si legga Elena Di Raddo, Alle origini di una nuova era Primordialismo e arte astratta in Italia negli anni Trenta, op. cit., pag. 29 secondo la quale: “l’appellativo di teosofo per Ciliberti in effetti ricorre in alcuni studi a lui dedicati basati sulla definizione che Mario Radice designò in una conferenza milanese degli anni Sessanta”.
(7) I testi di quelle conferenze furono raccolti in un utilissimo volume pubblicato nel 2003; si tratta di Franco Ciliberti, Storia degli ideali, a cura di Elena Di Raddo, Archivio Cattaneo, Cernobbio (CO), 2003.
(8) Lettera di Cesare Cattaneo a Franco Ciliberti del 21 dicembre 1942 pubblicata in Franco Ciliberti, Storia degli ideali, op. cit., pagg. 223-224; in questa lettera, Cesare Cattaneo, tra l’altro, scrive: “Peccato che per voi altri non cristiani – almeno nel senso che voi dite ‘ufficiale’ della parola – il Natale si risolva in un pollo e che, in definitiva, il disprezzo di quegli ossequi formalistici del culto che secondo voi incatenano la spiritualità finisca proprio in un abbandono di ogni significato spirituale della festa”; e poi: “possibile che tu senta così poco l’enorme distacco tra la tua imperfezione di uomo e la perfezione ideale, tra quello che puoi e quello che vorresti fare, da non considerare un perditempo dilettantesco questa continua ricerca delle verità al di fuori di una obbedienza anche non convinta all’autorità per es. della Chiesa?”.
(9) Franco Ciliberti, Storia degli ideali, op. cit., pagg. 116-117.
(10) Franco Ciliberti, Storia degli ideali, op. cit., pag. 116.
(11) Franco Ciliberti, Storia degli ideali, op. cit., pag. 117.
(12) Anche la Tavola V del Libro delle Figure, assai simile alla VI, può essere stata di ispirazione per Dante.
(13) Nel 1931, prima quindi del ritrovamento del Libro delle Figure, era stato pubblicato un importante saggio su Gioacchino da Fiore scritto da Ernesto Buonaiuti.
(14) Lo conferma il fatto che Dmitrij Sergeevič Merežkovskij, nel suo libro su Dante pubblicato nel 1938, parla “del magnifico codice della prima metà del XIII secolo, scoperto di recente, il Libro delle Figure” (si veda Demetrio Merejkowsky, Dante, traduzione dal russo di Rinaldo Küfferle, Nicola Zanichelli Editore, Bologna, 1938, pag. 393).
(15) Il critico d’arte Giuseppe Marchiori raccontò che nel 1934, sull’albo di una trattoria che s’inaugurava quel giorno a Burano, presso Venezia, l’artista scrisse: “Licini errante eretico erotico” (si veda Giuseppe Marchiori, Osvaldo Licini con 21 lettere inedite del pittore, De Luca Editore, Roma, 1960, pag.13).
(16) Licini conobbe Ciliberti soltanto nel corso degli anni Trenta. Nell’artista il tema della spiritualità poteva essere in vario modo già presente, ad esempio, nei Racconti di Bruto (scritti nel 1913) e nei dipinti Soldati italiani (1917), Arcangelo (1919), Paesaggio fantastico (Il capro) (1927): si vedano, rispettivamente, i miei studi (pubblicati tra le notizie del sito osvaldolicini.it) intitolati “Lacerba, L’Acerba, La Cerba. E Bruto”, “I soldati italiani, la caduta di Lucifero e Dante”, “Ipotesi per Arcangelo”, “Il pastorello, dalla montagna al lago”.
(17) In un mio precedente studio ho ipotizzato che il dipinto di Licini intitolato Castello in aria (del 1932, con intervento del 1936 o successivo) sia un’astratta rappresentazione dell’Apocalisse di Giovanni: si legga, per un approfondimento, il mio scritto dal titolo Castello in aria (con drago e arcobaleno) pubblicato il 31 agosto 2020 tra le notizie del sito osvaldolicini.it.
(18) Anche la Tavola V del Libro delle Figure, assai simile alla VI, può essere stata di ispirazione per Licini.
(19) La M è anche tradizionalmente simbolo della Grande Madre, dell’elemento femminile sacro; per Licini potrebbe quindi avere anche questo significato. L’artista sceglie il titolo di Olandese volante per una serie di opere nelle quali è presente questa lettera: nell’omonima opera di Richard Wagner, non a caso, l’Olandese si salva grazie all’incontro con Senta che è simbolo dell’eterno femminino (e, come tale, equivale alla M).
(20) Una “rappresentazione totemica” è presente anche nel dipinto di Licini del 1938 intitolato Il milionario; in questo caso le tre lettere disposte verticalmente per formare il “totem” sono i, M ed A. Come detto, le immagini del Libro delle Figure di Gioacchino avevano iniziato a circolare già prima della loro pubblicazione avvenuta nel 1940: questo potrebbe spiegare come mai il “totem” appaia in un dipinto del 1938. La lettera posta da Licini più in alto, in questo caso, è la i; il punto sopra questa lettera potrebbe simboleggiare l’occhio dell’aquila. Il dipinto Il milionario si può trovare riprodotto anche nel catalogo della mostra, a cura di Luca Massimo Barbero, Osvaldo Licini Che un vento di follia totale mi sollevi, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia, 22 settembre 2018 – 14 gennaio 2019, Marsilio, Venezia, 2018, pag. 127.
(21) Rudolf Steiner, L’impulso di Michele e il Mistero del Golgota – II, Stoccarda, 20 maggio 1913, in Verso il Mistero del Golgota Dieci conferenze tenute in diverse città dal 1913 al 1914, traduzione di Maria Cianci, Editrice Antroposofica, Milano, 2018, pag. 76.
(22) Osvaldo Licini, Natura di un discorso, cit.. Questa affermazione di Licini sembra risentire della necessità di spiritualità, anche nell’arte, sostenuta da Vasilij Kandinskij nel libro Lo spirituale nell’arte (pubblicato in tedesco, nel 1912, con il titolo di Über das Geistige in der Kunst).
Kandinskij si era interessato al pensiero di Gioacchino da Fiore e di Rudolf Steiner. La prima edizione italiana de Lo spirituale nell’arte risale al 1940 e fu tradotta in italiano da Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, conoscitore della teosofia e dell’antroposofia; fu pubblicata dalle Edizioni di “Religio”, casa editrice guidata da Ernesto Buonaiuti (il quale, come detto, aveva avuto contatti con Franco Ciliberti ed era stato autore di un importante saggio su Gioacchino da Fiore).
(23) Si tratta, in particolare, dell’opera riprodotta anche nel catalogo della mostra, a cura di Luca Massimo Barbero, Osvaldo Licini Che un vento di follia totale mi sollevi, op. cit., pag. 125.
(24) Se la lettera M, per Licini, è anche un riferimento alla Grande Madre, mi pare significativo che dall’anagramma della parola “merda” possa derivare la parola “madre”. Al materialismo della “merda” è infatti contrapposta la spiritualità della “Madre”. Analogamente il nome di Amalassunta (un personaggio inventato da Licini pochi anni dopo l’Olandese volante), se anagrammato, genera due gruppi di parole dal significato contrapposto: da un lato “Malus, Satana” e, dall’altro, “la Musa Santa”: anche qui una contrapposizione tra materialismo e spiritualità. Per l’anagramma della Amalassunta rimando al mio studio intitolato Amalassunta e la parola non detta, pubblicato il 21 maggio 2020 tra le notizie del sito osvaldolicini.it.